Perché un dizionario


Vi sono due motivi principali che rendono difficile trattare del dialetto. Primo, è una lingua parlata, non scritta né codificata, la cui trascrizione è a volte estremamente difficoltosa, se si usa l’alfabeto italiano. Ad esempio, l’esortazione: nn é da sta cuscì ngruflito ntel letto (non devi startene così avvilito a letto) come potremmo trascriverla? Come le altre parlate dell’alta Italia centrale, anche il pergolese accorcia le parole, le restringe e le deforma, si mangia lettere, deturpa le sillabe finali, produce fonemi che non si riscontrano nella lingua nazionale. E intona certe espressioni (etté; jééé…; ve’?; tropp’è!; embè…) che per riportarle occorrerebbe una sorta di pentagramma o, ancora più facilmente, un registratore vocale.
La seconda ragione sta nella scomparsa pressoché totale della civiltà contadina, che per secoli aveva mantenuto il suo linguaggio fatto di una sintassi semplice e di pochi vocaboli legati al lavoro dei campi. S’è dissolta la sua oralità, a maggior ragione in una vallata i cui abitanti non sono mai stati celebri per la loro loquacità. D'altro canto, il cittadino ha perduto quella che era la sua lingua ancor prima del contadino. Il pergolese parlato nel capoluogo in pochi decenni si è annacquato (diciamo famo invece di famme, tu sorella invece di soreta, arancia invece di mlarancia) e lo ha fatto più rapidamente di quello delle frazioni.
I vocaboli mutano man mano che ci allontaniamo dall’agglomerato cittadino: la vocale finale di ènno (loro sono) passa dalla o alla e lungo i campi per San Lorenzo, trasportata (e forse trasformata) dalla corrente del fiume Cesano… A complicare le cose, il fatto che neanche nelle nostre campagne il dialetto è mai stato uniforme: a Montajate un orecchio attento ci sente il frontonese, a Madonna del Piano il laurentino, a Montevecchio il fossombronese. C'è chi chiama (chiamava) il cetriolo melangola, chi gumarello.
Una caratteristica del nostro dialetto, in comune con gli altri marchigiani, è che non è molto piacevole da ascoltare per chi lo sente da fuori. Già dai tempi di padre Dante, le parlate delle nostre terre non sono mai state molto apprezzate. Nel De vulgari eloquentia, il Sommo rimarca la bruttezza della lingua della Marca di Ancona, seconda per fastidio solo a quella di Roma (Post hos incolas Anconitane Marchie decerpamus…); completavano il trio di pessimi parlatori gli abitanti di Spoleto.
 Il pergolese ha una parlata rozza, grossolana, smozzicata, adatta più alla prosa che alla poesia, più al registro buffo che a quello romantico. Sarà per il suo carattere che non riesce a pronunciare dolcemente la s intervocalica, che viene fuori sempre aspra (rosa, paese); come il fonema gl che è sempre il poco elegante j (foja, sbajato).
Se la cadenza è a metà strada (non solo geograficamente) tra Gubbio e Senigallia, altri elementi della grammatica sembrano lontani. Il nostro dialetto non è compiutamente senigalliese: non usiamo (più) il celebre sa al posto di con, non ammazziamo le vocali a fine enunciato, come fanno là. Ci sono differenze anche con l’eugubino (il nostro dialetto-padre, o fratello maggiore), più nella pronuncia che nei termini: non ci sono familiari tutte quelle d perugine (podessi per potessi) o quei plurali latini (deta per diti), però scorcello si usa solo tra Pergola e Gubbio. Non è certamente pesarese o urbinate: non abbiamo la palatizzazione romagnola delle a (chèsa per casa, parlèta per parlata), da noi la i tonica non diventa é (vén per vino). Non è sicuramente arceviese né sassoferratese, che non hanno gli influssi gallici da noi presenti anche se tanti vocaboli ci accomunano, ma non diciamo munno per mondo, o capìo per capito.
Eppure tutte queste parlate ci hanno influenzato e talvolta è divertente scoprire i tragitti dell’etimologia, notare che anche a Fabriano usano forestico, a Perugia vernìo, a Cagli dindla. Nel nostro vocabolario troviamo parole evocative (candalena, sprovengolo), divertenti (fustigone, dingolà), insensate (millanta, nvelle), tenere (erbetta, arversina)…
Potremmo chiamare la nostra parlata alto-cesanense, ma non saremmo precisi. Vi sono termini che nel raggio di pochissimi chilometri cambiano: galtreppola a Pergola, batistangola a San Lorenzo. Possiamo dire di sentirci a casa tra Serra S. Abbondio e San Lorenzo, lungo la prima metà del corso del fiume, dove non abbiamo remore nel parlare a nostri simili. Sappiamo che la lingua che si parla a Fenigli, a Nidastore, a Leccia o a Montalfoglio, seppur simile, differisce in molti termini, in particolare quelli di uso agricolo.
Ma è il retaggio storico della nostra penisola, solo recentemente unita. Le divisioni e suddivisioni amministrative-cultural-ecclesiali del nostro intricato passato hanno creato barriere e campanilismi. Sintomatica è la clamorosa differenza tra il dialetto parlato a Poggetto e quello a Morello. Lì, il dimesso corso del Cesano taglia due mondi (distanti in realtà poche centinaia di metri), il gallo-marchigiano e l’umbro-fabrianese. Malgrado ciò, queste divisioni hanno lasciato nella nostra penisola un’eredità antropologica che non ha uguali al mondo. I confini naturali e le mura delle città hanno protetto le nostre lingue, impedendone a lungo un’omogeneizzazione che ha esondato solo dall’ultimo dopoguerra. Le cause, si sa, sono state il boom economico, l’avvento della televisione, la scolarizzazione di massa, l’emigrazione, la ribellione dei giovani contro le tradizioni...
Influenze, a dir il vero, ce ne sono state sempre, nonostante i fossati e i doganieri. Il nostro vocabolario è ricco – oltre che latini –  di termini di origine etrusca (mucchia), umbra (madone), celtica (barbacano, bregno), longobarda (bruscia, stracco), bizantina (mastella), francese (robba, pillotto), ma anche romanesca (panzanella, scucchia) e, ovviamente, toscana (ciucca, sciapo). Per semplificare le cose, potremmo dire che la parlata pergolese è figlia del toscano (anche per vicinanza geografica),  nipote quindi del latino volgare, sorella minore dell’eugubino e sposa del romanesco (d’altra parte oltre due secoli di dominazione papalina non sono passati invano…).
Qualcuno allora potrebbe domandare: ma qual è il vero pergolese, quello di ieri o quello di oggi, quello del capoluogo o quello della campagna? Il dialetto è meno afferrabile di una lingua nazionale perché non ha codici, accademie, regolamentatori. Noi non sappiamo come parlassero i nostri avi due secoli orsono, figuriamoci cinque secoli fa. Di letteratura in pergolese non c’è praticamente nulla. Come detto, è una lingua fluida, non cristallizzata da regole.
Sappiamo che il pergolese rurale si è sempre distinto dal cittadino per la maggiore ruvidezza ed essenzialità, caratteristiche anche queste ormai praticamente svanite: oggi non dice più ce so gitto ma ce so gito, dice oggi loro màagnano e non più lora màgnene. Ammesso e non concesso che i nostri attuali contadini (tedeschi e olandesi esclusi) parlino ancora in dialetto… Con il passare del tempo è sempre più complicato ricercare taluni termini, ereditare certe espressioni tipiche. Lo spopolamento delle nostre terre prelude alla perdita quasi inevitabile di tutto questo patrimonio. Con questa urgenza è nata la decisione di redarre questo dizionario, di compilare una lista di parole cercando di trasporle nell’italiano. Vogliamo afferrarle, prima che evaporino definitivamente.