Gli aspetti linguistici


1. L'influenza del toscano

Dovuta in gran parte alla vicinanza geografica, l’influenza del toscano sulla nostra parlata è antica e prolungata nel tempo. Tanti termini e modi di dire hanno traversato i valichi dell’Appennino per trovare dimora anche dalle nostre parti, con minime variazioni. Occorre premettere che, è ovvio, non c’è un solo “toscano” dato che in una regione così estesa e ricca culturalmente ogni subregione, ogni provincia e finanche ogni città hanno differenze più o meno accentuate. Qui ci riferiamo in particolar modo ai vernacoli dell’aretino (data la sua prossimità) e soprattutto al fiorentino (dato il suo prestigio letterario).

Ricordiamo dunque alcune parole riferite ad oggetti e voci comuni, come la seggiola, l’uscio, la cannella, il guanciale, la granata, il biroccio, la cigna, la pevera, la bardella, il fulminante, la poccia, l’ugna, il cencio, il cacio, la troscia, il ciaffo, il cembolo, il gòtano, la sembla (lentiggine), il presciutto, le legne, la seccia, la griccia, la materia (pus), il brignoccolo, la sveccionata, la saracca, la grascia, la ciccia

Hanno origine toscana alcuni termini con suffisso -iccio (bruciaticcio, acquaticcio, sciamenaticcio, arcojiticcio), oppure in -ola o -olo (mariola, caciola, ramajolo, maggiajolo) o in -ajo (quajo, barbajo).

Il dittongo uo, formatosi nel passaggio dal latino volgare al primo toscano, è col tempo tornato all’originale, perdendo la u, come nelle nostre scola, lenzolo, foco, omo. Il trittongo nella combinazione iuo ha seguito la stessa via, abbandonando anch’esso la u: pajolo, bavajolo.

È comune con il toscano lo scambio q-g: guadrini, guasi…, come le epitesi su  certi termini che terminano in consonante (lapis lapise o abise, film filme, alcol alcole) o la sincope su alcune parole, come il celebre cencinquanta, o come il più trascurato secento.

Voci tipiche di uso comune sono anno (nel senso di anno scorso) o ierlaltro.

Appellativi di carattere popolare nati oltre l’Appennino sono blogio, bracalone, giuggiolone, badalucco, ciucco ma soprattutto babbo. Così pure il soggetto te al posto di tu.

Tra gli aggettivi che ci accomunano, segnaliamo invece tristo, sciapo, nostrale, sbrindellato, sciamenato, chiotto, rinseccolito, ciloffo, brillo

Come nel toscano, anzi a causa di esso, abbiamo molti aggettivi nati dalla forma contratta del participio, con l’arretramento dell’accento, da -ato a -o (comprato → compro): mondo, torno, lesso, trovo, tocco, impicco, cionco, guasto, passo, logoro, arivo

A proposito di verbi, sono molti quelli di origine toscana ormai quasi abbandonati dall’italiano, ma presenti nel nostro dialetto: bubbolà, sortì, buggerà, ‘nguattà, arcutinà, discorre, rincriccasse, scatizzolà, piccià, sgrullà, bufà, ciancicà, rugà

Ma anche tipiche locuzioni verbali ci accostano al toscano: ce gode, trovà loco, gì in ciampanella, stà de casa (abitare), buttasse sull’imbraca, armane impresso, l’ironico capirai!, bada… (come esortazione o ammonizione); e a proposito di imperativi, abbiamo i classici dì’, fa’, sta’, fa’, va’.

Hanno derivazione toscana pure certe forme verbali tipiche all’indicativo: (io) fo, vo, veggo, seggo; (lui) vòle, pòle, dòle come pure la costruzione avere + infinito in luogo di dovere: è tardi, ho da gì via.

L’infinito + particella (ad esempio parlarci) perde la r della desinenza, come in tutti i dialetti dell’Italia centrale: dunque parlacci (in toscano) e parlacce (in pergolese); il verbo guardarti in toscano è guardatti, in pergolese guardatte. Ugualmente per i verbi riflessivi, come lavarsi: in toscano lavassi, in pergolese lavasse; vestirsi in toscano diventa vestissi mentre in pergolese vestisse.

Nel toscano vi sono modi di dire tuttora vivi nel nostro dialetto, come ad esempio quelli con l’aggettivo bello: o quest’è bella!; co’ fai de bello? (da icché ffai di bello?); con significato di quasi: ho bell che fatto (da ho bell’e fatto); di un’azione che sta per compiersi: so’ bel che stuffo, è bel che morto. Pure noi usiamo, anche in senso ironico, il toscano bellino, mentre l’aggettivo buono ci accomuna nell’espressione l’è bon da ride! E poi bono!, o bono lì, nel senso di aspetta! E ancora bene: fa' ben bene!

Riscontriamo similitudini pure con il vocativo o: o ma’ (o mamma), o Pe’ (o Peppe) e anche il caratteristico o quell’omo! (o cl’omo!), che ci distingue dal romanesco a… Il pronome clitico l’è (l’è prorio bellina!) ha dato vita probabilmente al nostro , che ha valore di quanto, come nelle esclamazioni: le se' tristo!, l’è caldo oggie!

Un modo di dire preso dal toscano è il … e tutto: per esempio, è git al letto coi pagni e tutto. Un altro è tante le volte, nel senso di hai visto mai…: famme pjà sto grattevinci, tante le volte… Un altro ancora è hai voglia a te!, presente anche nella versione avoja, mutuata in questo caso dal romanesco. Pure il nostro ndo vai? (dove vai?) ricalca la forma toscana indovai?

Chiudiamo le espressioni in comune con: roba da chiodi, di giunta (in aggiunta, inoltre), chi l’indovina è bravo, sa d’erbino

Come alcuni dialetti toscani, il pergolese intona le frasi interrogative come se fossero affermative: il suono non si alza mai alla fine della frase, come farebbe con l’italiano: a che ora partimm domatina (?), te ndo stai de casa (?), è arivat Gianni (?). È basso all'inizio della frase o dopo poche parole, per rimanere piano fino all'ultima o penultima sillaba che viene quasi sussurrata.

Per contro, tra le tante differenze che invece ci separano ci piace segnalare alcune peculiari voci toscane: ciuco, balocco, ciotola, chetati, mi garba, celia, grullo, spengi, ganzo, desinare, ovvìa, bischero, codesto, nulla, noi si va…

 

2. La sintassi e il lessico

2.1 Il registro sociolinguistico
Il registro del dialetto pergolese non è mai formale, tanto meno solenne, ma sempre basso. Il lessico che ne consegue è perciò povero, fatto di frasi brevi. È frequente l’uso di vocaboli poveri (qualco’, uno, cla robba, coso), o di verbi generici come fà (fare) o (dire). Il verbo (andare), ad esempio, ne sostituisce altri mai utilizzati, come recarsi, dirigersi, condurre, inoltrarsi, allontanarsi, procedere, ecc. Sono in pratica assenti voci peraltro assai comuni in italiano, come albero, bosco, automobile, medico, pomeriggio, così come termini astratti di carattere appena elevato (genuino, emancipare, capacità), tanto meno di scientifico-tecnologico o giuridico. Come ogni parlata popolare è frequente la sguaiataggine, mentre è raro l’uso di forme di cortesia
scusate, per piacere, me dispiace. 
Il contadino o l’artigiano sono arguti per antonomasia, difficili da ingannare o da convincere. Il registro ironico è evidente nel linguaggio popolare, quasi fosse uno scudo o un antidoto contro la durezza dell’esistenza.
È il ribaltamento della realtà
co’ ce manca a nojà, mojettina mia, quando si è nella miseria nera
oste, che magnata che me so’ fatto!, quando il pasto è stato scarso
l’è bello quanto la gente se fida…, quando invece non si fida affatto.
Il sarcasmo arriva quando il discorso si fa più beffardo, amaro e pungente
scì scì, comm no
eh, c’hai ragion te!
le se’ geniale…
ah, te scì che se’ birbo!
Giné, comme fate a esse sempre cuscì bella?, quando la signora è invece certamente invecchiata
– ndo’ l’é comprata sta bella bretta?; – m l’ha portata l bambinello
oh, s’è svejato l principino, al figlio restato a letto fino a tardi
– éte visto le chiavi mia?; – le portava su la bocca n cane
– oh, è morta n’antra vitella!; – perfetto!
Non è raro l’atteggiamento cinico, come reazione alla propria condizione o alle convenzioni sociali. Il linguaggio allora diventa sprezzante, cattivo:
sapet co ve dico: giteve affanculo tutti quanti!
– la grandine là pl’orto ha fatt a pulì…; – mejo, cuscì n me c’ammattisco più
quanto guardo i manifesti da morto dico sempre: oh, fin’adè è toccata a j altri
Il pergolese è pieno dei cosiddetti segnali discorsivi
guarda; ‘nsomma; daj; te capisci; volevo dì; sta’ a sentì; allora
sia all’inizio che alla fine della frase. Molto frequenti sono le espressioni grossolane
va’ a cacà; eh ‘n colpo!; sto budellone; se’ na palla; che pippaculo; te schioppasse; st’ impiastro; mannaggia
e quelle volgari
che cojoni; testa de cazzo; fjo de putana; sto stronzo.
La parolaccia è spesso usata come rafforzativo
che cazzo stai a dì?
damme sto cazzo de martello.
L’imprecazione è caratteristica di alcune espressioni particolari, come quando ci si incontra
e ‘n colpo, da quant’è che n ce vedemmo?!
chette pjasse n’aciderba, comme stai?!
posci murì arrabbito, chi s’arvede?!
vaffanculo, se’ vivo?!
Il passaggio dall’imprecazione alla bestemmia può essere molto breve. Spesso però queste parolacce sono sostituite, per attenuarne l’intensità
cavolo, cazzarola, caspita; cojombri; fresca, fischia; aciderba; coltro; ammappete; merqula
e le bestemmie mascherate o alterate
poretto, caro, bono; madosca, madò; cristofno, cristarello; orco zio; osteria; santa gnacchera, santa pupa; diàntena.
Tipiche parole-tabù sono cancro, che viene sostituita da malaccio, mestruazioni (le cose sua), disabile (infelice) o l’equivoco scopare (a cui si preferisce spazzare).
Molti sono le voci legate ai lavori dei campi
somentà, stroppa, capezzagna, martinicchia, perdecaro, arcolcà, stradello, falasco, guluppa, cotà, cappanna, staccia
o alla produzione del vino
tramutà, bullita, pampena, suro, passone, peronospora, grotta, mezzanello, spillà,
o ai lavori artigianali
piro, cugno, arconcià, orciaro, fingà, tegne, bolletta, ‘mpajà, arsomejo, vulicchià, scorcello, cugno, scardizzà
o le innumerevoli legate alla cucina
miaccetto, reale, stegà, melangola, sanciccia, parnanza, fegatej, mecqulo, misticanza, brignoni, bandiera, guadrej, pattate, sboventà, mogne, conditore, pitria, beccuta, mantile, bagiana, grugni, fettato
o alla casa
bussarello, sofitta, aròla, panàra, barbacane, urinale, imbotita, rademattra, battuscio, taccarame, bagiùr, seggetto, giusta, mojole, prétta, baulle, ciaccanoce, bocata, intima
o alla religiosità
emmarìa, proposto, piccicasanti, cherichetto, campanaro, bendizzione, sàntlo, focarone, dòmo, dutrina, santantognaro, domnedio, orazzioni
o alle malattie
sturbo, orecchioni, sudarella, galagione, bója, ‘ndollimento, moroidi, bresciolo, cacarella, ògelo,  capostorno, fantjole, linito, collica, malcaduto, rimette, tiro, raspino, castrone, sdolorata
o al corpo
barbarozzo, calamari, ditone, trippa,  froge, carognola, pifra, bebblone, sgravà, cacqule, bego,  mocci, boccarola, ‘nquartasse, nasca, plancica, cacqle, recchia, bilìco, chiappe, sgulmito
o al tempo
sfiaruscola, vernìo, solustro, curina, guazza, bufa, caldaccia, pinara, ombrella, strina, gnagnarella, compone, sgrullo, rufina, ariaccia, rimbuzza.
Molte erbe hanno dei vocaboli tipici
erbetta, pimpinella, lellera, persichina, stregonella, crocetta, grugno, erbastella, innavro, spagna
così come molti animali
birro, ciambotto, nottla, dindlo, cucco, martarello, mariola, lodla, grancio, cappla, renga, candalena, gaggia, ràgano, cioetta, forqula
così come i funghi
i turrini, le famjole, i caprini, le carpinelle, le biette, i ditej, j ovoli, i galletti, i roscioli.
Alcuni vocaboli hanno un gran numero di sinonimi, come quelli relativi alla sbronza
dindla, scimmia, calandra, galaverna, lellera, ciappola, gilera, ciucca, sborgna, bebbla…
ancora di più quelli per dire le sberle, le botte
‘n boccatone, ‘na cracca, ‘no sciacquadenti, ‘na giara, ‘na cegnata, ‘na scurqulata, ‘na ceppa, ‘na schicchera, ‘n ciaccagnino, ‘n brettone, ‘na bagolata, ‘no sganassone, ‘na panacca, ‘na crocchiata, ‘na palata, ‘na sardella, ‘n cuccumino, ‘na pifra, ‘no scoppolone, ‘na sgrullata, ‘n liscebbusso, ‘na saracca, ‘n mazzacunile, ‘n ciuflotto, ‘na sveccionata, ‘na brega, ‘n mustaccione, ‘na pacca, ‘n garofano, ‘na ciavattata, ‘na papagna, ‘na torqulata, ‘na catramina, ‘na gotnata…
o per gli insulti
bamboccio, blogio, scanucito, beccamorto, pòra cana, saurito, barbagiano, pencio, bomblo, giodeca, bacucco, giuracana, impiastro, baccalà, paccalosso, baccalà, pelagaline, bavoso, sciaganito, piattola, sciamenato, zinghero, sdogato, disgustoso, ‘ncantato…
Hanno generalmente valore spregiativo le voci che hanno suffisso in -otto
zangolotto, ciambotto, bagianotto, cagnarotto, anguillotto, capisciotto, boccolotto, gaggiotto, bossolotto, casciarotto
quelle sdrucciole in -olo
cacanottolo, cembolo, tarambossolo, cazzabubbolo
e quelle in -one  
fiffolone, zacqulone, sbrindellone, budellone, pappolone, beccecone, ciovettone, boccalone, giuggiolone, lollone, saccoccione, ruzzigone, lonzone, piagnolone.
Anche il suffisso -ticcio ha funzione peggiorativa, dà senso di disordine
rutlaticcio, mischiaticcio, pistaticcio, sciamenaticcio, sbrodlaticcio.
Il suffisso -ello dà idea di pochezza in quantità e qualità
papparella, birello, acetello, toccatella, granatello
o di affettuosità:
sciaparello, bagarello, strofella, voltarella.
Il suffisso di origine romanesca -aro è distintivo dei mestieri, che in toscano terminerebbero in -ajo, in particolare quelli un tempo popolari ma oggi scomparsi
ombrellaro, pellaro, cordaro, birocciaro, fungaro
ma anche di termini comuni col finale -aio
paro, febbraro, pajaro, granaro, caldaro.
A volte il cambio di desinenza dal genere maschile al femminile fa cambiare di significato
ceppo (cespo) e ceppa (sberla)
trocco (trogolo) e trocca (vaso)
coppo (tegola) e coppa (lonza)
covo (covone) e cova (nido)
moro (gelso) e mora (livido)
resto (rimanenza) e resta (lisca di pesce).
Molti dei nomi di frutti sono, al contrario dell’italiano, maschili
me magno ‘n pesco
damme ‘n melo, va’
ma anche molti vocaboli italiani in pergolese cambiano genere
cucchiaio cucchiara
fangofanga
ranno ranna
ombrelloombrella
stacciostaccia
bucato bocata
la mela → 'l melo
la lepre ’l lepre.
Tra le curiosità, spina si dice spino, mentre spillo si dice spilla.
Il plurale del neutro latino, se in italiano diventa anche femminile (il ciglio i cigli, le ciglia), in pergolese è invece solo maschile
i diti, i lenzoli, j ossi, i bracci, i muri, j ovi, i ginocchi, i corni.
Talvolta si riscontrano arcaismi comuni con i dialetti limitrofi ma che sono nel tempo quasi totalmente scomparsi:
la e al posto della o nella coniugazione dei verbi per la terza persona plurale (dichene invece di dicheno, vojne invece di vojno)
sa (con: sta bon sa le mane; l’arost sa le pattate)
machì (qui: ven machì da me)
malì (: quan ce gimm malì?)
il ne come epitesi (scìne, machìne).
È caratteristico il linguaggio usato dagli adulti nei confronti dei bambini piccoli
fa la nanna, la bumba, la pappa, la ciccia, le tottò, la bua, ‘l bau, fa caro, fa nanno, la chicca, ‘l bobo, la popò, mammoletto mia!, la tata.
I numeri ricalcano la struttura dell’italiano, con trascurabili peculiarità.
Uno segue l’articolo indeterminativo omologo.
Due, se seguito da sostantivo o altra cifra, diventa du’ (du’ diti, du’ sorelle, dumila, ducento) altrimenti a fine enunciato non cambia (dammene due). In secondo la vocale pretonica e cade (s.condo); paio si dice paro.
Anche il sei  perde la vocale finale quando precede un altro nome (se’ chili, secento), quando è sessanta presenta uno scempiamento della doppia consonante (sesanta).
Dodici, tredici e sedici rafforzano la d (doddici, tredddici, seddici), mentre quattordici perde una t (quatordici). 
Dozzina si dice dozzena, milione mijone, mijonata, miliardo mijardo, centinaio centinaro, migliaio mjàro, mjarata.
Centocinquanta riporta la sincope toscana e diventa cencinquanta (e poi ducencinquanta, trecencinquanta, ecc).
Milione è mijone, miliardo è mijardo.
I mesi dell’anno sono come in italiano, tranne
gennaro, febbraro, marso e lujo
mentre i giorni della settimana sono
lundì, mardì, mercoldì, giuvdì, vennardì, sabbato, domenica.

Un accenno alle unità di misura che, prima dell’introduzione del sistema metrico decimale, caratterizzava Pergola e tutta l’Italia preunitaria. Ogni città, ogni borgo aveva le proprie, con tutti i problemi di calcolo che esse comportavano. La lunghezza era misurata in canne (una canna pergolese corrispondeva a circa 4,46 metri); la canna si divideva in 10 piedi e un piede in 24 once. Per le lunghezze più piccole c’era il braccio, pari a 65 cm circa. Vi era anche un braccio per misurare i tessuti (braccio da panno), che corrispondeva a poco più di 66 cm. Le superfici si misuravano in rubbia: un rubbio di Pergola era pari a circa un ettaro e mezzo, suddiviso in 8 coppe e ogni coppa era 150 canne quadrate. Il rubbio misurava anche la capacità per aridi (cioè granaglie, carbone, ecc.) e corrispondeva a 2,78 ettolitri; inoltre si divideva in 8 coppe e ogni coppa in 4 provende. Invece per i liquidi si aveva la soma, pari a 1,2 ettolitri, se riferita al vino; per l’olio l’unità di misura era  invece la brocca, che era pari a 0,23 hl. Per la soma da vino vi era una suddivisione in 3 barili e ogni barile uguale a 16 boccali. La brocca da olio si divideva in 8 boccali, il boccale in 6 fogliette, la foglietta in 4 quarte, una quarta in 2 mezze quarte. Per i volumi si usava il piede cubo (pari a 0,042 metri cubi m3), suddiviso in 1728 once cube. Per la legna da ardere avevano il passo da legna, che era pari m3 2,63. Infine il peso: a Pergola vi era la libbra (0,32 kg circa), suddivisa in 12 on-ce, con un oncia di 8 ottavi. E le frazioni di Montevecchio, Monterolo, Fenigli e Montesecco avevano le loro distinte unità di misura!

Numerosi i nomi di elementi del centro storico che fanno parte del quotidiano dei pergolesi
le birarelle, j zoccolanti, ‘l camptello, la rocca, ‘l mercatale, ‘l campo dla fiera, ‘l giardino, i ferri, ‘l campo sportivo, ‘l parapetto, ‘l piano, ‘l semafro, la stazzione, ‘l chiocco, ‘l cimitero, la voltarella, ‘l costone, ‘l cantone, le scole, ‘l retrocorso, la tarpea, lo stradone, le conce, le tinte, Sanfrancesco, la cona, lo stabbiaro, j orti, la tarpea …
I nomi propri di persona, per finire, subiscono sovente un’abbreviazione, un’alterazione o un vezzeggiativo. Vediamone solo alcuni, tra quelli del passato: ad esempio Menchino, Gisto, Berto, Merigo, Lisandro, Pippo, Gusto, Medeo, Righetto, Nando, Checco e, tra quelli femminili, Sconda, Gigia, Cattarina, Nena, Marietta, Bea, Lella, Gusta, Peppina, Giuanna, Delina, oltre ai sempre popolari Nino, Gino, Pino, Bino, Rino, Dino, Tino, Lino, anche nella forma femminile.
 
 
2.2 Le figure retoriche
Il parlato è ricco di interiezioni, non solo quando si impreca ma anche quando si esprime stupore, scetticismo, fastidio
oh, ma co vòi?
eh, te pareva!
jé, l’è bello!
boh, nnel so
j la farà, co dici? bo bo!
scì, magara!
etté!
é vojà!
a va’ chi è rivato!
essà
macché
ma camina!
co c’arrai
uffa, che palle!
ah na fica!
ajo, fa’ piano
e ‘n colpo!
oh giusto
mannaggia…
o nel richiamo agli animali da lavoro (léé Bio’).  Si fa ricorso all’ onomatopea per richiamare le voci gli animali da cortile
bicca bicca, curì, pi-pì.
È molto frequente l’iterazione, cioè la ripetizione delle parole:
di aggettivi
zitto zitto
sto monello è bon bono
nì ciloffo ciloffo
comm’è che se’ mogio mogio?
o di avverbi
fa’ ben bene
pian pianino c’arivammo
ma daver davero
è gitt via adè adè
o di verbi
gira gira le vai a pjà
comm vien viene
daj e daj j l’ha fatta
è tutto n magna magna
a chi tocca tocca.
Si fa grande uso di iperboli nel parlato comune, quando si vuole esagerare una descrizione, per eccesso o per difetto
fa morì darride!
me magneria n bove!
ho speso n occhio dla testa!
Casi di antifrasi sono molto comuni
va’ le se’ bello!
oste che gran magnata!
tanto è poco carino!
sci che costa poco!
per affermare l’esatto contrario.
La litote è l’affermazione attenuata di un contrario
nn è bel per gnente
certo che n se’ na volpe
eh, nn’è malaccio
stasera nne sto bene.
Un altro modo per attenuare un’espressione è rappresentato dall’eufemismo, frequente nel nostro dialetto
Dio l’ha rposto, cioè è morto
me fo du spaghetti.
È frequente nel registro ironico il ricorso all’antonomasia
i cipollari, i laurentini
‘l pistacoppi, il piccione
‘l padron de casa, il cuore.
Il concetto espresso con due termini simili (endiadi) è presente in locuzioni come
j so bon e caro…
me tocca a fallo ‘n fretta e ‘n furia.
Molto abituali, come in italiano, gli anacoluti, cioè gli scambi dell’ordine degli elementi
‘l caffè l’ piamm doppo al bar
a babbeto gni dì gnente
i con lù manco ce parlo
l monello per magnà magna
ma anche nei detti popolari
chi pequra se fa, l lup s la magna.
Si fa spesso ricorso al pleonasmo, l’espressione abbondante
co’ vòi, ‘n brettone?
co’ è che dici?
méttete a sede, va’
a me n me piace
i’ dico solo che n’ va bene
per me è sbajato
penso che pò gì
ce l’hai mill lire?
bocca drento
giù basso
là oltre.
Alcune locuzioni sono metafore (chi n s’aguzza n chiodo), o similitudini (è matto comme ‘n crino), o sineddoche (con tutte ste bocche da sfamà).

2.3 I falsi amici

Nell’evoluzione della lingua dal volgare latino al dialetto, molte parole hanno modificato nel tempo il loro significato. Ne diamo un elenco tra le più curiose:

l pancione (il fiatone)

sgappà (uscire di casa)

l’erbetta (il prezzemolo)

cidioso (stomachevole)

l laccetto (stringa)

fuggì (scansarsi)

 


3. La fonetica

3.1. I fonemi
a
Molte parole perdono la a iniziale, per aferesi 
renga (aringa)
cende (accendere)
guzzo (aguzzo)
traversà (attraversare)
brustolito (abbrustolito)
ruginì (arrugginire).
Anche quando è davanti a nomi propri la a spesso si perde
Alessandro Lisandro
Augusta Gusta
Adelma Delma
Annibale Nibale.
b
La b a volte sostituisce la p
panca banca
tiepido tiebido
pisello bisello
oppure la v
vescica besciga
oppure la m
megera begera.
Quando la precede la n, questa diventa m
gran bordello grambordello
san Biagio sambiagio
Quando è tra due vocali, specie se postonica, spesso raddoppia: robba, sabbato.
c
La c dura raramente sostituisce la g dura (aco per ago).
La c dolce, con la particella ci, precede sempre le coniugazioni del verbo avere (c’ho fame, c’avevi ragione) tranne quando è ausiliare (nn’ho magnato).
Quando la c è intervocalica, si pronuncia come una leggera sc [ʃ]
ca-sci-o, bu-sci-nà, a-sci-no.
d
La t a volte diventa d
cotica codica.
coratella coradella.
e
La e al finale di enunciato è sempre pronunciata, mentre è appena accennata [ə] nel mezzo, se non tonica
cecagna, Secondo, rademattra.
Quando invece è in mezzo alla frase la e finale non si pronuncia
‘na fetta de pane
tutte le volte
All’inizio di alcuni termini o di nomi di persona, come per la a, è spesso omessa
lastico per elastico
saurito per esaurito
Vandro per Evandro
Rigo per Enrico.
La pronuncia della vocale e (aperta, [ɛ], o chiusa, [e]) segue in genere quella dell’italiano, ma con molte eccezioni, per influsso del romanesco (économia per èconomia), come nel dittongo [je], che nel nostro dialetto è sempre chiuso
iéri, bandiéra, piéde, carabignére, chiésa.
Nella coniugazione di alcuni verbi, se la sillaba è accentata il dittongo ie scompare
véne (vieni)
sédete (siediti).
Al contrario, sono pronunciate, erroneamente, aperte
stèlla, èrto, vèrde, còmpiti
e i vocaboli in –mento, -mente, -menta (veramènte, momènto, mènta, ecc.) . Frequente la e pleonastica, come nell’italiano
e dirìa!
e quant te ce vole!
A volte sostituisce la i
diavolodeavolo.
f
Quando è all’inizio di parola, assimila la r che la precede
pefforza
peffortuna .
g
La g dura molto spesso sostituisce la c dura
buco bugo
cravatta gravatta
cabina gabina
lacrimare lagrimà
castigo gastigo
caraffa garaffa
cresta gresta
sbieco sbiego
o la qu
quaderno guaderno
quadrato guadrato.
La g dolce sostituisce a volte la c dolce
ciottolo giottolo
sfracello sfragello.
gl
Il fonema [ʎ] in pergolese, al pari di molti altri dialetti italiani del centro-sud, non è presente e si preferisce usare [j]
maglia maja
tagliare tajà
foglia foja
gli amici j amici.
gn
Il fonema [ɲ], tipico delle lingue neolatine, in pergolese è usato anche nelle parole che presentano la lettera n seguita dai dittonghi i + altra vocale
matrimoniale matrimognale
niente gnente
comunione comugnone
miniera mignera
iniezione ignizzione
Antonio Antogno
a volte sostitiusce la doppia n
panni pagni
calunnia calugna
decennio decegno
o la ngh
unghia ogna
cinghia cigna.
È spesso utilizzato anche al posto del nesso toscano ng
mangiare magnà
piangere piagne
mungere mogne
stringere strigne.
Il suono gn in pergolese è rafforzato rispetto all’italiano: legna si dice /leɲɲa/ invece di /leɲa/.
i
La i all’inizio di parola è omessa per aferesi quando precede m o n più consonante
imbriaco; ingavinà; inciampà
se preceduta da pronome personale atono, questo non si elide, a differenza dell’italiano
me nnamoro; ve mparo.
È il soggetto io (i nnel so), quando non è a fine enunciato (te l dich io). A volte sostituisce la e
tegametigame.
j
La j [j] è la pronuncia  dei  termini che solitamente finiscono  in
–lli: munej, gaj, cappéj.
È l’articolo maschile plurale gli: j ovi, j altri e il pronome personale gli
adè te j dici co ha da fa, adesso gli dici cosa deve fare
le
a la Gina j ho regalato n fiore, a Gina (le) ho regalato un fiore
loro
j scrivo che nn han da nì, gli scrivo, o scrivo loro, che non devono venire.
l
La l dei finali di parola, quando ne precede un’altra con la r, viene da questa assimilata
damme rresto (dammi il resto)
méttete arriparo (al riparo).
Al contrario, assimila la r, per influenza del romanesco
vederlo vedello
farle falle.
A volte sostituisce la r dell’italiano
sciarpa scialpa
prurito plurito
Ruggero Luggero
artrite altrite.
m
In alcune parole, forse per influsso del romanesco, la m singola viene pronunciata rafforzata
pommidoro, stommaco, cammera.
Si rafforza pure quando è preceduta da n
man mano mammano
gran mascalzone grammascalzone
n
Davanti alle consonanti p, b e m, la n per eufonia si pronuncia m
mpò (un po’)
impiù (in più)
mbel pò (un bel po’)
bembene (ben bene)
imbrodo (in brodo)
immezzo (in mezzo)
Sammarco (San Marco)
scompare davanti a s + consonante impura
istallà
istabile
istaurà
davanti alle nasali l e r si assimila
San Lorenzo Sallorenzo
Gianluca Gialluca
Enrico Errico.
A volte prende il posto della r (Cristofno) o della l (n antro per un altro).
o
Come per la e, la o  tonica o nel finale di enunciato è sempre pronunciata, mentre è accennata negli altri casi
bambolotto, tutolo. 
Quando però è in mezzo alla frase la o finale non si pronuncia
mpezzo de strada
‘l fiolo dla Peppa.
A volte prende il posto della u
Lodovico invece di Ludovico
ogne invece di unghie.
La vicinanza con il dialetto romanesco fa sì che la pronuncia della o aperta, [ɔ], a volte sia chiusa, [o]
spórge invece di spòrge
gónna invece di gònna
e viceversa
dòppo invece di dópo
colònna invece di colónna
còmpiti invece di cómpiti
Giòrgio invece di Giórgio.
Il dittongo in italiano uo, quando la sillaba è accentata, in pergolese perde sempre la u e si pronuncia solo la o
buono bono
fuoco  foco
cuore core
uovo ovo
uomo omo.
Anche nella coniugazione di alcuni verbi, se la sillaba è accentata, il dittongo uo scompare
puoi pòi
duole dòle
vuole vòle
muori mòri.
Il dittongo eo si pronuncia io nei derivati di geo-
giòmetra
giografia
e quando non è accentato
diodorante
arioplano.
Traccia del toscano rimane nella o pleonastica: o quest’è bella!
p
All’inizio di parola, se la precedente termina per n, il suono diventa mp
un povero m povero
nessun posto niscium posto.
Quando è parte della sillaba finale e precede una consonante, molto spesso questa ne assimila il suono
troppo bello trobbello (troppo bello)
dopo mangiamo dommagnammo (doppo magnammo).
A volte prende il posto della m (capomilla per camomilla).
r
Se posizionata all'inizio della parola spesso il suo suono è rafforzato
   l rastello, l rogo.
La r, oltre a cadere sempre nella sillaba finale dei verbi all’infinito, viene talvolta omessa anche quando la preposizione per incontra una consonante
pe n amico, pe scherzo.
 A volte sostituisce la l dell’italiano
coltello cortello
scalogna scarogna
lasagnolo rasagnolo.
s
Se in italiano si pronuncia in due modi (aspro [s] o dolce [z]), in pergolese è solo aspro: rosa, poesia, isola, tranne quando è iniziale di parola davanti a consonante sonora (svojato, sbudellà).
Quando è preceduta dalle consonanti l, n e r, la s si pronuncia sempre come una z aspra
poltso (polso)
faltso (falso)
pentsiero (pensiero)
pentsione (pensione)
órtso (orso)
pertsona (persona).
sc
Come per l’italiano, e a differenza di altri dialetti centro-meridionali, la s preconsonantica non è quasi mai pronunciata sc [ʃ]. Solo in alcune pronunce enfatiche o espressive, forse per influenza del romanesco, si possono avere
sc.chifo; sc.tupido; basc.tardo; osc.tia.
 La sc si sente a volte in alcuni toponimi, come
Belliscialto (Bellisio Alto)
‘l Ponte dla Scimonetta (Ponte della Simonetta)
o in termini al posto della s
scì, pòsci, cuscì
o della c quando è tra due vocali o a inizio parola
casciara, smuscinà, scìone, bresciolo, sciuttà.
sg
Il fonema [ʒ], come in francese journal, in pergolese come in italiano è rarissimo (strasginà, trascinare, o parole di origine francese come garasg, garage, o basgiù, abat-jour, ma in questi casi è più comune l’uso della g dolce).           
t
A volte la d diventa t
quando quanto
stupidaggini stupitagini.
u
A volte prende il posto della o
coniglio cunile
rotolare rutlà
fomento fumento
ortica urtica
dormita durmita
forcina, forchetta furcina.
v
La v a volte sostituisce la d (sbiavito per sbiadito), a volte la l (sboventà per sbollentare), a volte la f (scrova per scrofa), a volte la b (ciavatta per ciabatta).
In certi casi viene appena pronunciata
piove
bove
uva
ciovetta.
z
Come nel caso della s, in pergolese dei due modi previsti in italiano (aspro [ts] e dolce [dz]) prevale la prima pronuncia, scorretta rispetto all’italiano
prantso (pranzo) invece di prandzo
ratso (razzo) invece di radzo.
La pronuncia del fonema zi + vocale è sempre intensa e nell’ipotetica grafia risulterebbe vizzio, azzione, Grazziella, ecc.


3.2. Le caratteristiche fonetiche

Le parole sdrucciole nel dialetto pergolese non sono frequenti
diàntena, pràdeca, béccica, gnàgnera
a parte le forme verbali:
méttelo, guàrdace, durmìvano.
Le troviamo soprattutto nei nomi alterati, ma la vocale seguente quella tonica è sempre appena accennata e ciò le rende quasi piane
pàppole
carógnola
tarambòssolo
sprovéngolo
fórqula
bèbbola.
Molte parole che cominciano per i e per u, se seguite da m o n più consonante, prevedono la soppressione della sillaba o vocale iniziale (aferesi)
Imbranato, insomma, un po’.
Molti vocaboli che cominciano per a perdono la sillaba iniziale
aringa renga
arrugginito ruginito
ammaccato maccato  
oppure con la e
epifania pifanìa
esaurito saurito
emorroidi moroidi
così come alcuni verbi
eliminare liminà
abbaiare bajà
avuto vuto.
Molti nomi di persona perdono la vocale iniziale, in particolare la a e la e
Assunta Sunta
Amedeo Medeo
Evandro Vandro.
Tipica aferesi è l’aggettivo sto
sta lagna (questa lagna)
sto muro (questo muro).
Il caso più eclatante di apocope, cioè la caduta della vocale o sillaba finale di parola nel dialetto pergolese è, al pari di molti altri dialetti italiani, il troncamento dell’infinito di quasi tutti i verbi
sveja’, senti’, tira’, fini’.
Anche l’imperativo nella seconda persona perde la vocale finale, come da tradizione toscana
di’, da’, va’, fa’, sta’.
Altrettanto comune è non pronunciare le vocali finali e e o in un gran numero di parole, quando sono in mezzo alla frase
che brav’ munello
tra du’ giorni
‘l majon’ verde
gimm’ via
diman’ l’altro. 
Anche la sillaba finale a volte cade
quan ce gimmo? (quando ci andiamo?)
quan ne vòi (quante ne vuoi)
co’ vòi (cosa vuoi)
a volte la consonante finale
co’ la fjola (con la figlia)
pe’ scherzo (per scherzo)
come la consonante finale di alcune parole di origine straniera
pulma, pullman
camio, camion
ticche, ticket sanitario
nailo, nylon
o di altri nomi terminanti per consonante
la Sisa, la SISAL, ex Totocalcio
'l Mìla, il Milan.
Tipico esempio di troncamento riguarda le allocuzioni, quando ci si rivolge a qualcuno chiamandolo per nome (o per soprannome), forse per influenza del romanesco. Il troncamento avviene sempre sulla sillaba tonica
Frànco Fra’
Albèrto Albe’
morétto more’  
bàbbo o ba’
Bàrbara o Ba’
Àngelo o A’
La sincope, cioè l’eliminazione di uno o più fonemi all’interno della parola, è molto diffusa
proprio propio
centocinquanta cencinquanta
eccolo èllo
sughero suro
pagliericcio pajccio
faggeto faeto
terremoto tremoto
bevuta buta
poveretto poretto.
Può riguardare la vocale non accentata, come
avecceli
peverone
acetello
diavolo
lettera
picqulo
rancidasse
vermine
o, più raramente, la consonante
piove
uva
rastrello
bove.
Esce frequentemente in toponimi come
Monterolo
Sassoferrato
Fratterosa.
Tipica sincope è quella dell’imperativo di alcuni verbi
mecce (mettici): mecce mpò più de sale
temme (tienimi): temme l posto ch’artorno
givvìa (andate via):  allora, givvia o no?
vemme (vienimi): vemm’ a trova quant c’é l tempo
bucce (buttaci): si nc’arivi bucce l cappello.
Meno frequente è la funzione contraria, cioè l’inserimento di uno o più fonemi all’interno della parola (epentesi)
moccioloso
arrabbicito
la dòndla
rinsecqulito
i numbri
l’ vermne
la ranfreddora
la strampella
Luviggi.
La prostesi si ha quando si aggiunge una vocale eufonica all’ inizio di una parola (aradio), in particolare la i quando comincia con s impura
lavora in Isvizzera
mettlo pr iscritto
pjà in isposa.
Quando invece prende una sillaba finale si ha l’epitesi, (scìne, nòne), come alcune parole di origine straniera come
filme, tennise, gippe (jeep).
A volte può avvenire lo scambio di due fonemi all’interno di una parola, e si ha la metatesi
drento per dentro
batecca per bacchetta
fraido per fradicio.
Il raddoppiamento sintattico, tipico del toscano e di dialetti centro-meridionali, non è presente nel pergolese
davvero davero
quaggiù quagiù
oddio odìo
addosso adosso
tressette tresette
tre(c)cani rimane tre cani
è(g)giusto rimane è giusto
a(r)Roma rimane a Roma
ciò vale, in particolare, nelle preposizioni articolate
la campana de le sette
da la matina a la sera
nne sta su la porta.
Il rafforzamento di alcune consonanti (geminazione) però non è raro
roba robba
sabato sabbato
colica collica
dopo doppo
baule baulle
litigare littigà
stufo stuffo
fagiolo faggiolo
libro libbro
problema probblema
riguarda in particolare la prima persona plurale dell’indicativo presente
bevemmo, fammo, gimmo, guardammo, semmo.
Al contrario, molte consonanti doppie in italiano sono indebolite, specialmente prima dell’accento:
nei sostantivi
gallina galina
bottega botega
carriola cariola
bottone botone
cappotto capotto
piccione picione
o negli aggettivi
attenti atenti
arrugginito ruginito
sessanta sesanta
o negli avverbi
laggiù lagiù
stamattina stamatina
o nei verbi
soffiare sofià
mi piacciono me piaciono
cammina camina
succede sucede.
Può capitare lo scambio di doppia consonante con singola, come Tomasso per Tommaso.
Tipici esempi di allitterazione pergolese sono
la dingla-dangla, l’altalena
fra l’imbra e l’ambra, fra la luce e lo scuro
lilla e bacilla
chi sministra sminestra
‘na gnagnera
fifflà
ciancicà
le papple.