1. L'influenza del toscano
Dovuta
in gran parte alla vicinanza geografica, l’influenza del toscano sulla nostra
parlata è antica e prolungata nel tempo. Tanti termini e modi di dire hanno
traversato i valichi dell’Appennino per trovare dimora anche dalle nostre
parti, con minime variazioni. Occorre premettere che, è ovvio, non c’è un solo “toscano” dato che in
una regione così estesa e ricca culturalmente ogni subregione, ogni provincia e
finanche ogni città hanno differenze più o meno accentuate. Qui ci riferiamo in
particolar modo ai vernacoli dell’aretino (data la sua prossimità) e soprattutto al fiorentino
(dato il suo prestigio letterario).
Ricordiamo
dunque alcune parole riferite ad oggetti e voci comuni, come la seggiola, l’uscio, la cannella, il guanciale, la granata, il biroccio, la cigna, la pevera, la bardella, il fulminante, la poccia, l’ugna, il cencio, il cacio, la troscia, il ciaffo, il cembolo, il gòtano, la sembla (lentiggine), il presciutto, le legne, la seccia, la griccia, la materia (pus), il brignoccolo, la sveccionata, la saracca, la grascia, la ciccia…
Hanno
origine toscana alcuni termini con suffisso -iccio (bruciaticcio, acquaticcio, sciamenaticcio, arcojiticcio), oppure in -ola o
-olo (mariola,
caciola,
ramajolo,
maggiajolo) o in -ajo (quajo, barbajo).
Il
dittongo uo, formatosi nel passaggio dal latino volgare al primo
toscano, è col tempo tornato all’originale, perdendo la u, come nelle
nostre scola, lenzolo, foco, omo. Il trittongo nella combinazione iuo ha
seguito la stessa via, abbandonando anch’esso la u: pajolo, bavajolo.
È comune con il toscano lo scambio q-g: guadrini, guasi…, come le epitesi su certi termini che terminano in consonante (lapis
→ lapise o abise,
film → filme, alcol → alcole)
o la sincope su alcune parole, come il celebre cencinquanta, o come il più trascurato secento.
Voci
tipiche di uso comune sono anno (nel senso di anno scorso) o ierlaltro.
Appellativi
di carattere popolare nati oltre l’Appennino sono blogio, bracalone, giuggiolone, badalucco, ciucco ma soprattutto babbo. Così pure il soggetto te al posto di tu.
Tra
gli aggettivi che ci accomunano, segnaliamo invece tristo,
sciapo, nostrale, sbrindellato, sciamenato, chiotto, rinseccolito, ciloffo, brillo…
Come nel toscano, anzi a causa di esso, abbiamo
molti aggettivi nati dalla forma contratta del participio, con l’arretramento
dell’accento, da -ato a -o (comprato → compro): mondo, torno, lesso, trovo,
tocco, impicco, cionco, guasto, passo, logoro, arivo…
A
proposito di verbi, sono molti quelli di origine toscana ormai quasi abbandonati
dall’italiano, ma presenti nel nostro dialetto: bubbolà, sortì, buggerà, ‘nguattà, arcutinà, discorre,
rincriccasse, scatizzolà, piccià, sgrullà, bufà, ciancicà, rugà…
Ma anche tipiche locuzioni verbali ci accostano al
toscano: ce gode, trovà loco, gì in ciampanella, stà de casa (abitare), buttasse
sull’imbraca, armane impresso, l’ironico capirai!, bada… (come esortazione o ammonizione); e
a proposito di imperativi, abbiamo i classici dì’, fa’, sta’, fa’, va’.
Hanno
derivazione toscana pure certe forme verbali tipiche all’indicativo: (io)
fo,
vo,
veggo,
seggo;
(lui) vòle,
pòle,
dòle come pure la
costruzione avere + infinito in luogo di dovere: è tardi, ho
da gì via.
L’infinito + particella (ad esempio parlarci)
perde la r della desinenza, come in tutti i dialetti dell’Italia
centrale: dunque parlacci (in toscano) e parlacce (in pergolese); il verbo guardarti
in toscano è guardatti, in pergolese guardatte. Ugualmente per i verbi
riflessivi, come lavarsi: in toscano lavassi, in pergolese lavasse; vestirsi in
toscano diventa vestissi mentre in pergolese vestisse.
Nel toscano vi sono modi di dire tuttora vivi nel
nostro dialetto, come ad esempio quelli con l’aggettivo bello: o quest’è
bella!;
co’ fai de bello? (da icché ffai di
bello?); con significato di quasi: ho bell che fatto (da ho bell’e fatto);
di un’azione che sta per compiersi: so’ bel che stuffo, è bel che morto. Pure noi usiamo, anche
in senso ironico, il toscano bellino, mentre l’aggettivo buono ci
accomuna nell’espressione l’è bon da ride! E poi bono!, o bono lì, nel senso di aspetta! E ancora bene: fa' ben bene!
Riscontriamo
similitudini pure con il vocativo o: o ma’ (o mamma), o Pe’ (o Peppe) e anche il caratteristico
o quell’omo! (o cl’omo!), che
ci distingue dal romanesco a… Il
pronome clitico l’è (l’è prorio bellina!) ha dato vita
probabilmente al nostro lé, che ha valore di quanto, come nelle esclamazioni:
le se' tristo!, l’è
caldo oggie!
Un modo di dire preso dal toscano è il … e
tutto: per esempio, è git al letto coi pagni e tutto. Un altro è tante le
volte, nel senso di hai visto mai…: famme pjà
sto grattevinci, tante le volte… Un altro ancora è hai voglia a te!,
presente anche nella versione avoja, mutuata in questo caso
dal romanesco. Pure
il nostro ndo vai? (dove
vai?) ricalca la forma toscana indovai?
Chiudiamo le espressioni in comune con: roba da
chiodi, di giunta (in aggiunta, inoltre), chi
l’indovina è bravo, sa d’erbino…
Come
alcuni dialetti toscani, il pergolese intona le frasi interrogative come se
fossero affermative: il suono non si alza mai alla fine della frase, come
farebbe con l’italiano: a che ora partimm domatina (?), te ndo stai de casa (?),
è arivat Gianni (?).
È basso all'inizio della frase o dopo poche parole, per rimanere piano fino
all'ultima o penultima sillaba che viene quasi sussurrata.
Per
contro, tra le tante differenze che invece ci separano ci piace segnalare
alcune peculiari voci toscane: ciuco, balocco, ciotola, chetati, mi
garba, celia, grullo, spengi, ganzo, desinare, ovvìa, bischero, codesto, nulla, noi si va…
2. La
sintassi e il lessico
2.1 Il registro sociolinguistico
Il registro del dialetto pergolese non è mai formale,
tanto meno solenne, ma sempre basso. Il lessico che ne consegue è perciò
povero, fatto di frasi brevi. È frequente l’uso di vocaboli poveri (qualco’, uno, cla
robba, coso), o di
verbi generici come fà (fare) o
dì (dire). Il verbo gì (andare), ad esempio, ne sostituisce
altri mai utilizzati, come recarsi, dirigersi, condurre, inoltrarsi, allontanarsi, procedere, ecc. Sono in pratica assenti voci peraltro assai
comuni in italiano, come albero, bosco, automobile, medico,
pomeriggio, così come termini astratti di carattere appena elevato (genuino, emancipare, capacità),
tanto meno di scientifico-tecnologico o giuridico. Come ogni parlata popolare è frequente la
sguaiataggine, mentre è raro l’uso di forme di cortesia
scusate,
per piacere, me dispiace.
Il contadino o l’artigiano sono arguti per antonomasia,
difficili da ingannare o da convincere. Il registro ironico è evidente nel
linguaggio popolare, quasi fosse uno scudo o un antidoto contro la durezza
dell’esistenza.
È il ribaltamento della realtà
co’ ce manca a nojà, mojettina mia, quando
si è nella miseria nera
oste, che magnata che me so’ fatto!, quando
il pasto è stato scarso
l’è
bello quanto la gente se fida…, quando invece non si fida
affatto.
Il sarcasmo arriva quando il discorso si fa più beffardo,
amaro e pungente
scì scì, comm no
eh, c’hai ragion te!
le se’ geniale…
ah, te scì che se’ birbo!
Giné, comme fate a esse sempre cuscì bella?, quando
la signora è invece certamente invecchiata
– ndo’ l’é comprata sta bella bretta?; – m l’ha portata l bambinello
oh, s’è svejato l principino, al
figlio restato a letto fino a tardi
– éte visto le chiavi mia?; – le portava su la bocca n cane
–
oh, è morta n’antra vitella!; – perfetto!
Non è raro l’atteggiamento cinico, come reazione alla
propria condizione o alle convenzioni sociali. Il linguaggio allora diventa sprezzante,
cattivo:
sapet co ve dico: giteve affanculo tutti quanti!
– la grandine là pl’orto ha fatt a pulì…; – mejo, cuscì n me
c’ammattisco più
quanto
guardo i manifesti da morto dico sempre: oh, fin’adè è toccata a j altri…
Il pergolese è pieno dei cosiddetti segnali discorsivi
guarda; ‘nsomma; daj; te capisci; volevo dì; sta’ a sentì; allora
sia all’inizio che alla fine della frase. Molto frequenti
sono le espressioni grossolane
va’ a cacà; eh ‘n colpo!; sto budellone; se’
na palla; che pippaculo; te schioppasse; st’ impiastro; mannaggia
e quelle volgari
che cojoni; testa de cazzo; fjo de putana;
sto stronzo.
La parolaccia è spesso usata come rafforzativo
che cazzo stai a dì?
damme
sto cazzo de martello.
L’imprecazione è caratteristica di alcune espressioni
particolari, come quando ci si incontra
e ‘n colpo, da quant’è che n ce vedemmo?!
chette pjasse n’aciderba, comme stai?!
posci murì arrabbito, chi s’arvede?!
vaffanculo,
se’ vivo?!
Il passaggio dall’imprecazione
alla bestemmia può essere molto breve. Spesso però queste parolacce sono
sostituite, per attenuarne l’intensità
cavolo, cazzarola, caspita; cojombri;
fresca, fischia; aciderba; coltro; ammappete; merqula
e le bestemmie mascherate o
alterate
poretto,
caro, bono; madosca, madò; cristofno, cristarello; orco zio; osteria; santa
gnacchera, santa pupa; diàntena.
Tipiche
parole-tabù sono cancro, che viene
sostituita da malaccio, mestruazioni
(le cose sua), disabile
(infelice) o l’equivoco scopare
(a cui si preferisce spazzare).
Molti sono le voci legate ai lavori dei campi
somentà, stroppa, capezzagna, martinicchia, perdecaro, arcolcà,
stradello, falasco, guluppa, cotà, cappanna, staccia
o alla produzione del vino
tramutà, bullita, pampena, suro, passone, peronospora, grotta, mezzanello, spillà,
o ai lavori artigianali
piro, cugno, arconcià, orciaro, fingà, tegne, bolletta,
‘mpajà, arsomejo, vulicchià, scorcello, cugno, scardizzà
o le innumerevoli legate alla
cucina
miaccetto, reale, stegà, melangola, sanciccia, parnanza, fegatej,
mecqulo, misticanza, brignoni, bandiera, guadrej, pattate, sboventà, mogne,
conditore, pitria, beccuta, mantile, bagiana, grugni, fettato
o alla casa
bussarello, sofitta, aròla, panàra, barbacane, urinale, imbotita,
rademattra, battuscio, taccarame, bagiùr, seggetto, giusta, mojole, prétta,
baulle, ciaccanoce, bocata, intima
o alla religiosità
emmarìa, proposto, piccicasanti, cherichetto, campanaro, bendizzione,
sàntlo, focarone, dòmo, dutrina, santantognaro, domnedio, orazzioni
o alle malattie
sturbo,
orecchioni, sudarella, galagione, bója,
‘ndollimento, moroidi, bresciolo, cacarella, ògelo, capostorno, fantjole, linito, collica,
malcaduto, rimette, tiro, raspino, castrone, sdolorata
o al corpo
barbarozzo, calamari, ditone, trippa, froge, carognola, pifra, bebblone, sgravà, cacqule,
bego, mocci, boccarola, ‘nquartasse,
nasca, plancica, cacqle, recchia, bilìco, chiappe, sgulmito
o al tempo
sfiaruscola,
vernìo, solustro, curina, guazza, bufa, caldaccia, pinara, ombrella, strina, gnagnarella,
compone, sgrullo, rufina, ariaccia, rimbuzza.
Molte erbe hanno dei vocaboli tipici
erbetta, pimpinella, lellera, persichina, stregonella,
crocetta, grugno, erbastella, innavro, spagna
così come molti animali
birro, ciambotto, nottla, dindlo, cucco, martarello, mariola,
lodla, grancio, cappla, renga, candalena, gaggia, ràgano, cioetta, forqula
così come i funghi
i
turrini, le famjole, i caprini, le carpinelle, le biette, i ditej, j ovoli, i galletti,
i roscioli.
Alcuni vocaboli hanno un gran numero di sinonimi, come
quelli relativi alla sbronza
dindla, scimmia, calandra, galaverna, lellera, ciappola, gilera,
ciucca, sborgna, bebbla…
ancora di più quelli per dire le sberle, le botte
‘n boccatone, ‘na cracca, ‘no
sciacquadenti, ‘na giara, ‘na cegnata, ‘na scurqulata, ‘na ceppa, ‘na
schicchera, ‘n ciaccagnino, ‘n brettone, ‘na bagolata, ‘no sganassone, ‘na panacca,
‘na crocchiata, ‘na palata, ‘na sardella, ‘n cuccumino, ‘na pifra, ‘no
scoppolone, ‘na sgrullata, ‘n liscebbusso, ‘na saracca, ‘n mazzacunile, ‘n
ciuflotto, ‘na sveccionata, ‘na brega, ‘n mustaccione, ‘na pacca, ‘n garofano,
‘na ciavattata, ‘na papagna, ‘na torqulata, ‘na catramina, ‘na gotnata…
o per gli insulti
bamboccio,
blogio, scanucito, beccamorto, pòra cana, saurito, barbagiano, pencio, bomblo,
giodeca, bacucco, giuracana, impiastro, baccalà, paccalosso, baccalà,
pelagaline, bavoso, sciaganito, piattola, sciamenato, zinghero, sdogato, disgustoso,
‘ncantato…
Hanno generalmente valore spregiativo le voci che hanno
suffisso in -otto
zangolotto, ciambotto,
bagianotto, cagnarotto, anguillotto, capisciotto, boccolotto, gaggiotto, bossolotto, casciarotto
quelle sdrucciole in -olo
cacanottolo, cembolo, tarambossolo, cazzabubbolo
e quelle in -one
fiffolone, zacqulone,
sbrindellone, budellone, pappolone, beccecone,
ciovettone, boccalone, giuggiolone,
lollone, saccoccione, ruzzigone, lonzone, piagnolone.
Anche il suffisso -ticcio
ha funzione peggiorativa, dà senso di disordine
rutlaticcio, mischiaticcio, pistaticcio, sciamenaticcio,
sbrodlaticcio.
Il suffisso -ello
dà idea di pochezza in quantità e qualità
papparella, birello, acetello, toccatella, granatello
o di affettuosità:
sciaparello, bagarello, strofella, voltarella.
Il suffisso di origine romanesca -aro è distintivo dei mestieri, che in toscano terminerebbero in -ajo, in particolare quelli un tempo
popolari ma oggi scomparsi
ombrellaro, pellaro, cordaro, birocciaro, fungaro
ma anche di termini comuni col finale -aio
paro,
febbraro, pajaro, granaro, caldaro.
A volte il cambio di desinenza dal genere maschile al
femminile fa cambiare di significato
ceppo (cespo) e ceppa (sberla)
trocco (trogolo) e trocca (vaso)
coppo (tegola)
e coppa
(lonza)
covo (covone)
e cova
(nido)
moro (gelso) e mora
(livido)
resto
(rimanenza) e resta (lisca di pesce).
Molti dei nomi di frutti sono, al contrario dell’italiano,
maschili
me magno ‘n pesco
damme ‘n melo, va’
ma anche molti vocaboli italiani in pergolese cambiano
genere
cucchiaio → cucchiara
fango → fanga
ranno → ranna
ombrello → ombrella
staccio → staccia
bucato → bocata
la mela → 'l melo
la lepre → ’l lepre.
Tra le curiosità, spina si dice spino, mentre spillo si dice spilla.
Il plurale del neutro latino, se in italiano diventa anche
femminile (il ciglio → i cigli,
le ciglia), in pergolese è invece solo maschile
i
diti, i lenzoli, j ossi, i bracci, i muri, j ovi, i ginocchi, i corni.
Talvolta si riscontrano arcaismi comuni con i dialetti
limitrofi ma che sono nel tempo quasi totalmente scomparsi:
la e al posto della o nella
coniugazione dei verbi per la terza persona plurale (dichene invece di dicheno, vojne invece di vojno)
sa (con: sta bon sa le mane; l’arost sa le pattate)
machì (qui: ven machì da me)
malì (lì: quan ce gimm malì?)
il ne
come epitesi (scìne,
machìne).
È caratteristico il linguaggio usato dagli adulti nei
confronti dei bambini piccoli
fa
la nanna, la bumba, la pappa, la ciccia, le tottò, la bua, ‘l bau, fa caro, fa nanno, la
chicca, ‘l bobo, la popò, mammoletto mia!, la tata.
I numeri ricalcano la struttura dell’italiano, con trascurabili peculiarità.
Uno
segue l’articolo indeterminativo omologo.
Due, se
seguito da sostantivo o altra cifra, diventa du’ (du’ diti, du’ sorelle, dumila, ducento) altrimenti a fine enunciato non cambia (dammene due). In secondo
la vocale pretonica e cade (s.condo);
paio si dice paro.
Anche il sei perde la vocale finale
quando precede un altro nome (se’
chili, secento), quando è sessanta presenta uno scempiamento della
doppia consonante (sesanta).
Dodici, tredici e sedici rafforzano la d (doddici, tredddici, seddici), mentre quattordici
perde una t (quatordici).
Dozzina si
dice dozzena, milione
mijone, mijonata, miliardo
mijardo, centinaio
centinaro, migliaio mjàro, mjarata.
Centocinquanta
riporta la sincope toscana e diventa cencinquanta (e poi ducencinquanta, trecencinquanta, ecc).
Milione
è mijone, miliardo è mijardo.
I mesi dell’anno sono come in italiano, tranne
gennaro, febbraro, marso e lujo
mentre i giorni della settimana sono
lundì, mardì, mercoldì, giuvdì, vennardì, sabbato, domenica.
Un accenno alle unità
di misura che, prima dell’introduzione del sistema metrico decimale,
caratterizzava Pergola e tutta l’Italia preunitaria. Ogni città, ogni borgo
aveva le proprie, con tutti i problemi di calcolo che esse comportavano. La lunghezza era
misurata in canne
(una canna
pergolese corrispondeva a circa 4,46 metri); la canna si divideva in 10 piedi e un piede
in 24 once.
Per le lunghezze più piccole c’era il braccio,
pari a 65 cm circa. Vi era anche un braccio
per misurare i tessuti (braccio da panno),
che corrispondeva a poco più di 66 cm. Le superfici si
misuravano in rubbia:
un rubbio
di Pergola era pari a circa un ettaro e mezzo, suddiviso in 8 coppe e ogni coppa
era 150 canne
quadrate. Il rubbio misurava anche la capacità per aridi
(cioè granaglie, carbone, ecc.) e corrispondeva a 2,78 ettolitri; inoltre si
divideva in 8 coppe
e ogni coppa
in 4 provende. Invece per i liquidi
si aveva la soma,
pari a 1,2 ettolitri, se riferita al vino; per l’olio l’unità di misura era invece la brocca,
che era pari a 0,23 hl. Per la soma
da vino vi era una suddivisione in 3 barili
e ogni barile
uguale a 16 boccali.
La brocca
da olio si divideva in 8 boccali,
il boccale
in 6 fogliette,
la foglietta
in 4 quarte,
una quarta
in 2 mezze quarte. Per i volumi si
usava il piede
cubo (pari a 0,042 metri
cubi m3), suddiviso in 1728 once cube. Per la legna da ardere avevano il passo da legna, che era pari m3 2,63. Infine il peso: a
Pergola vi era la libbra
(0,32 kg circa), suddivisa in 12 on-ce,
con un oncia
di 8 ottavi. E le frazioni di
Montevecchio, Monterolo, Fenigli e Montesecco avevano le loro distinte unità di
misura!
Numerosi i nomi di elementi del centro storico che fanno
parte del quotidiano dei pergolesi
le
birarelle, j zoccolanti, ‘l camptello, la rocca, ‘l mercatale, ‘l campo dla
fiera, ‘l giardino, i ferri, ‘l campo sportivo, ‘l parapetto, ‘l piano, ‘l
semafro, la stazzione, ‘l chiocco, ‘l cimitero, la voltarella, ‘l costone, ‘l
cantone, le scole, ‘l retrocorso, la tarpea, lo stradone, le conce, le tinte, Sanfrancesco, la cona, lo stabbiaro, j orti, la tarpea …
I nomi
propri di persona, per finire, subiscono sovente un’abbreviazione,
un’alterazione o un vezzeggiativo. Vediamone solo alcuni, tra quelli del
passato: ad esempio Menchino, Gisto, Berto,
Merigo, Lisandro, Pippo, Gusto, Medeo, Righetto, Nando, Checco e, tra quelli femminili, Sconda, Gigia, Cattarina, Nena, Marietta, Bea,
Lella, Gusta, Peppina, Giuanna, Delina, oltre ai sempre popolari Nino, Gino, Pino, Bino,
Rino, Dino, Tino, Lino, anche
nella forma femminile.
2.2 Le
figure retoriche
Il parlato è ricco di interiezioni, non solo quando si impreca
ma anche quando si esprime stupore, scetticismo, fastidio
oh, ma co vòi?
eh, te pareva!
jé, l’è bello!
boh, nnel so
j la farà, co dici? bo bo!
scì, magara!
etté!
é vojà!
a va’ chi è rivato!
essà
macché
ma camina!
co c’arrai
uffa, che palle!
ah na fica!
ajo, fa’ piano
e ‘n colpo!
oh giusto
mannaggia…
o nel richiamo agli animali da
lavoro (léé Bio’). Si fa
ricorso all’ onomatopea per
richiamare le voci gli animali da cortile
bicca
bicca, curì, pi-pì.
È molto frequente l’iterazione,
cioè la ripetizione delle parole:
di aggettivi
zitto zitto
sto monello è bon bono
nì ciloffo ciloffo
comm’è che se’ mogio mogio?
o di avverbi
fa’ ben bene
pian pianino c’arivammo
ma daver davero
è gitt via adè adè
o di verbi
gira gira le vai a pjà
comm vien viene
daj e daj j l’ha fatta
è tutto n magna magna
a chi tocca tocca.
Si fa grande uso di iperboli
nel parlato comune, quando si vuole esagerare una descrizione, per eccesso o
per difetto
fa morì darride!
me magneria n bove!
ho
speso n occhio dla testa!
Casi di antifrasi
sono molto comuni
va’ le se’ bello!
oste che gran magnata!
tanto è poco carino!
sci che costa poco!
per affermare l’esatto
contrario.
La litote è l’affermazione attenuata di un contrario
nn è bel per gnente
certo che n se’ na volpe
eh, nn’è malaccio
stasera
nne sto bene.
Un altro modo per attenuare un’espressione è rappresentato
dall’eufemismo, frequente nel nostro
dialetto
Dio l’ha rposto, cioè è morto
me
fo du spaghetti.
È frequente nel registro ironico il ricorso all’antonomasia
i cipollari, i laurentini
‘l pistacoppi, il piccione
‘l
padron de casa, il cuore.
Il concetto espresso con due termini
simili (endiadi) è presente in
locuzioni come
j so bon e caro…
me
tocca a fallo ‘n fretta e ‘n furia.
Molto abituali, come in italiano, gli anacoluti, cioè gli scambi dell’ordine degli elementi
‘l caffè l’ piamm doppo al bar
a babbeto gni dì gnente
i con lù manco ce parlo
l monello per magnà magna
ma anche nei detti popolari
chi
pequra se fa, l lup s la magna.
Si fa spesso ricorso al pleonasmo, l’espressione abbondante
co’ vòi, ‘n brettone?
co’ è che dici?
méttete a sede, va’
a me n me piace
i’ dico solo che n’ va bene
per me è sbajato
penso che pò gì
ce l’hai mill lire?
bocca drento
giù basso
là
oltre.
Alcune locuzioni sono metafore
(chi n s’aguzza n chiodo), o similitudini (è matto comme ‘n crino), o sineddoche (con tutte ste bocche da sfamà).
2.3 I falsi amici
Nell’evoluzione della
lingua dal volgare latino al dialetto, molte parole hanno modificato nel tempo
il loro significato. Ne diamo un elenco tra le più curiose:
l pancione (il fiatone)
sgappà (uscire di
casa)
l’erbetta (il prezzemolo)
cidioso (stomachevole)
l laccetto (stringa)
fuggì (scansarsi)
3. La fonetica
3.1. I
fonemi
a
Molte parole perdono la a iniziale, per aferesi
renga (aringa)
cende (accendere)
guzzo (aguzzo)
traversà (attraversare)
brustolito (abbrustolito)
ruginì (arrugginire).
Anche quando è davanti a nomi propri la a spesso si perde
Alessandro → Lisandro
Augusta → Gusta
Adelma → Delma
Annibale → Nibale.
b
La b a volte sostituisce la p
panca → banca
tiepido → tiebido
pisello → bisello
oppure la v
vescica → besciga
oppure la m
megera → begera.
Quando la precede la n, questa diventa m
gran bordello → grambordello
san Biagio → sambiagio
Quando è tra due vocali,
specie se postonica, spesso raddoppia: robba,
sabbato.
c
La c dura
raramente sostituisce la g dura (aco per ago).
La c dolce, con
la particella ci, precede sempre le
coniugazioni del verbo avere (c’ho
fame, c’avevi ragione) tranne
quando è ausiliare (nn’ho
magnato).
Quando la c è
intervocalica, si pronuncia come una leggera sc [ʃ]
ca-sci-o, bu-sci-nà,
a-sci-no.
d
La t a volte
diventa d
cotica → codica.
coratella → coradella.
e
La e al finale
di enunciato è sempre pronunciata, mentre è appena accennata [ə]
nel mezzo, se non tonica
cecagna,
Secondo, rademattra.
Quando invece è in mezzo alla
frase la e finale non si pronuncia
‘na fetta de pane
tutte le volte
All’inizio di alcuni termini o di nomi di persona, come
per la a, è spesso omessa
lastico per elastico
saurito per esaurito
Vandro per Evandro
Rigo per Enrico.
La pronuncia della vocale e (aperta, [ɛ], o chiusa, [e]) segue
in genere quella dell’italiano, ma con molte eccezioni, per influsso del romanesco
(économia per èconomia), come
nel dittongo [je], che nel nostro dialetto è
sempre chiuso
iéri, bandiéra, piéde, carabignére,
chiésa.
Nella coniugazione di alcuni verbi, se la sillaba è
accentata il dittongo ie scompare
véne (vieni)
sédete (siediti).
Al contrario, sono
pronunciate, erroneamente, aperte
stèlla, èrto, vèrde, còmpiti
e i vocaboli in –mento,
-mente, -menta (veramènte, momènto, mènta, ecc.)
. Frequente la e pleonastica, come
nell’italiano
e dirìa!
e quant te ce vole!
A volte sostituisce la i
diavolo → deavolo.
f
Quando è all’inizio di parola, assimila la r che la precede
pefforza
peffortuna .
g
La g dura molto
spesso sostituisce la c dura
buco → bugo
cravatta → gravatta
cabina → gabina
lacrimare → lagrimà
castigo → gastigo
caraffa → garaffa
cresta → gresta
sbieco → sbiego
o la qu
quaderno → guaderno
quadrato → guadrato.
La g dolce
sostituisce a volte la c dolce
ciottolo → giottolo
sfracello
→ sfragello.
gl
Il
fonema [ʎ] in pergolese, al pari di
molti altri dialetti italiani del centro-sud, non è presente e si preferisce
usare [j]
maglia → maja
tagliare → tajà
foglia → foja
gli amici → j amici.
gn
Il
fonema [ɲ], tipico delle lingue
neolatine, in pergolese è usato anche nelle parole che presentano la lettera n seguita dai dittonghi i + altra vocale
matrimoniale → matrimognale
niente → gnente
comunione → comugnone
miniera → mignera
iniezione → ignizzione
Antonio → Antogno
a volte sostitiusce la
doppia n
panni → pagni
calunnia → calugna
decennio → decegno
o la ngh
unghia → ogna
cinghia → cigna.
È spesso utilizzato anche
al posto del nesso toscano ng
mangiare → magnà
piangere → piagne
mungere → mogne
stringere → strigne.
Il
suono gn in pergolese è rafforzato
rispetto all’italiano: legna si dice /leɲɲa/
invece di /leɲa/.
i
La i all’inizio
di parola è omessa per aferesi quando precede m o n più consonante
imbriaco; ingavinà; inciampà
se preceduta da pronome personale atono, questo non si
elide, a differenza dell’italiano
me nnamoro; ve mparo.
È il soggetto io
(i nnel so),
quando non è a fine enunciato (te
l dich io). A volte sostituisce la e
tegame → tigame.
j
La j [j] è la
pronuncia dei termini che solitamente finiscono in
–lli: munej, gaj, cappéj.
È
l’articolo maschile plurale gli: j ovi, j altri e il pronome personale gli
adè te j dici co ha da fa,
adesso gli dici cosa deve fare
le
a la Gina j ho regalato n fiore,
a Gina (le) ho regalato un fiore
loro
j scrivo che nn han da
nì, gli scrivo, o
scrivo loro, che non devono venire.
l
La
l dei finali di parola, quando ne
precede un’altra con la r, viene da
questa assimilata
damme rresto (dammi il
resto)
méttete arriparo (al riparo).
Al
contrario, assimila la r, per
influenza del romanesco
vederlo → vedello
farle → falle.
A
volte sostituisce la r dell’italiano
sciarpa → scialpa
prurito → plurito
Ruggero → Luggero
artrite → altrite.
m
In alcune parole, forse
per influsso del romanesco, la m
singola viene pronunciata rafforzata
pommidoro, stommaco, cammera.
Si rafforza pure quando è
preceduta da n
man mano → mammano
gran mascalzone → grammascalzone
n
Davanti alle consonanti p, b
e m, la n per eufonia si pronuncia m
mpò (un po’)
impiù (in più)
mbel pò (un bel po’)
bembene (ben bene)
imbrodo (in brodo)
immezzo (in mezzo)
Sammarco (San Marco)
scompare davanti a s + consonante impura
istallà
istabile
istaurà
davanti alle nasali l e r si assimila
San Lorenzo → Sallorenzo
Gianluca → Gialluca
Enrico → Errico.
A volte prende il posto
della r (Cristofno)
o della l (n antro per un altro).
o
Come per la e,
la o
tonica o nel finale di enunciato è sempre pronunciata, mentre è
accennata negli altri casi
bambolotto, tutolo.
Quando però è in mezzo alla frase
la o finale non si pronuncia
mpezzo de strada
‘l fiolo dla Peppa.
A volte prende il posto della u
Lodovico invece di Ludovico
ogne invece di unghie.
La vicinanza con il dialetto
romanesco fa sì che la pronuncia della o
aperta, [ɔ], a volte sia chiusa, [o]
spórge invece di spòrge
gónna invece di gònna
e
viceversa
dòppo invece di dópo
colònna invece di colónna
còmpiti invece di cómpiti
Giòrgio invece
di Giórgio.
Il dittongo in italiano uo, quando la sillaba è accentata, in
pergolese perde sempre la u e si
pronuncia solo la o
buono → bono
fuoco
→ foco
cuore → core
uovo → ovo
uomo → omo.
Anche nella coniugazione di alcuni verbi, se la sillaba è
accentata, il dittongo uo scompare
puoi → pòi
duole → dòle
vuole → vòle
muori → mòri.
Il dittongo eo
si pronuncia io nei derivati di geo-
giòmetra
giografia
e quando non è accentato
diodorante
arioplano.
Traccia
del toscano rimane nella o
pleonastica: o quest’è bella!
p
All’inizio di parola, se
la precedente termina per n, il
suono diventa mp
un povero → ‘m
povero
nessun posto → niscium posto.
Quando è parte della
sillaba finale e precede una consonante, molto spesso questa ne assimila il
suono
troppo bello → trobbello (troppo bello)
dopo mangiamo → dommagnammo
(doppo magnammo).
A volte prende il posto della
m (capomilla per camomilla).
r
Se posizionata all'inizio della parola spesso il suo suono è rafforzato
l rastello, l rogo.
La r, oltre a cadere sempre nella sillaba finale dei verbi all’infinito,
viene talvolta omessa anche quando la preposizione per incontra una consonante
pe n amico, pe scherzo.
A volte sostituisce la l dell’italiano
coltello → cortello
scalogna → scarogna
lasagnolo → rasagnolo.
s
Se in
italiano si pronuncia in due modi (aspro [s] o dolce
[z]), in
pergolese è solo aspro: rosa,
poesia,
isola,
tranne quando è iniziale di parola davanti a consonante sonora (svojato, sbudellà).
Quando
è preceduta dalle consonanti l, n e r, la s si pronuncia
sempre come una z aspra
poltso (polso)
faltso (falso)
pentsiero (pensiero)
pentsione (pensione)
órtso (orso)
pertsona (persona).
sc
Come
per l’italiano, e a differenza di altri dialetti centro-meridionali, la s preconsonantica non è quasi mai
pronunciata sc [ʃ]. Solo in alcune
pronunce enfatiche o espressive, forse per influenza del romanesco, si
possono avere
sc.chifo; sc.tupido; basc.tardo;
osc.tia.
La sc
si sente a volte in alcuni toponimi, come
Belliscialto
(Bellisio Alto)
‘l Ponte dla Scimonetta (Ponte della Simonetta)
o
in termini al posto della s
scì, pòsci, cuscì
o
della c quando è tra due vocali o a
inizio parola
casciara, smuscinà, scìone, bresciolo, sciuttà.
sg
Il
fonema [ʒ],
come in francese journal,
in pergolese come in italiano è rarissimo (strasginà, trascinare, o parole di origine francese
come garasg,
garage, o basgiù, abat-jour, ma in questi casi è più comune
l’uso della g dolce).
t
A
volte la d diventa t
quando → quanto
stupidaggini → stupitagini.
u
A
volte prende il posto della o
coniglio → cunile
rotolare → rutlà
fomento → fumento
ortica → urtica
dormita → durmita
forcina, forchetta → furcina.
v
La
v a volte sostituisce la d (sbiavito per sbiadito), a volte la l (sboventà per sbollentare), a volte la f (scrova per scrofa), a volte la b (ciavatta per ciabatta).
In
certi casi viene appena pronunciata
piove
bove
uva
ciovetta.
z
Come
nel caso della s, in pergolese dei
due modi previsti in italiano (aspro [ts] e dolce
[dz]) prevale la
prima pronuncia, scorretta rispetto all’italiano
prantso (pranzo)
invece di prandzo
ratso (razzo)
invece di radzo.
La pronuncia del fonema zi + vocale è sempre intensa e nell’ipotetica grafia risulterebbe vizzio, azzione, Grazziella, ecc.
3.2. Le caratteristiche fonetiche
Le
parole sdrucciole nel dialetto
pergolese non sono frequenti
diàntena,
pràdeca, béccica, gnàgnera
a parte
le forme verbali:
méttelo,
guàrdace, durmìvano.
Le
troviamo soprattutto nei nomi alterati, ma la vocale seguente quella tonica è
sempre appena accennata e ciò le rende quasi piane
pàppole
carógnola
tarambòssolo
sprovéngolo
fórqula
bèbbola.
Molte parole che cominciano per i e per u, se seguite da
m o n più consonante, prevedono la soppressione della sillaba o vocale
iniziale (aferesi)
Imbranato, insomma,
un po’.
Molti vocaboli che cominciano per a perdono la sillaba iniziale
aringa → renga
arrugginito → ruginito
ammaccato → maccato
oppure con la e
epifania → pifanìa
esaurito → saurito
emorroidi → moroidi
così come alcuni verbi
eliminare → liminà
abbaiare → bajà
avuto → vuto.
Molti nomi di persona perdono la vocale iniziale, in
particolare la a e la e
Assunta → Sunta
Amedeo → Medeo
Evandro → Vandro.
Tipica aferesi è l’aggettivo sto
sta lagna (questa lagna)
sto
muro (questo muro).
Il caso più eclatante di apocope, cioè la caduta della vocale o sillaba finale di parola nel
dialetto pergolese è, al pari di molti altri dialetti italiani, il troncamento
dell’infinito di quasi tutti i verbi
sveja’,
senti’, tira’, fini’.
Anche l’imperativo nella seconda persona perde la vocale
finale, come da tradizione toscana
di’,
da’, va’, fa’, sta’.
Altrettanto comune è non pronunciare le vocali finali e e o in un gran numero di parole, quando sono in mezzo alla frase
che brav’ munello
tra du’ giorni
‘l majon’ verde
gimm’ via
diman’
l’altro.
Anche la sillaba finale a volte cade
quan ce gimmo? (quando ci andiamo?)
quan ne vòi (quante ne vuoi)
co’ vòi (cosa vuoi)
a volte la consonante finale
co’ la fjola (con la figlia)
pe’ scherzo (per scherzo)
come la consonante finale di alcune parole di origine
straniera
pulma, pullman
camio, camion
ticche, ticket sanitario
nailo, nylon
o di altri nomi terminanti per consonante
la Sisa, la SISAL, ex Totocalcio
'l
Mìla, il Milan.
Tipico esempio di troncamento riguarda le allocuzioni, quando ci si rivolge a
qualcuno chiamandolo per nome (o per soprannome), forse per influenza del
romanesco. Il troncamento avviene sempre sulla sillaba tonica
Frànco → Fra’
Albèrto → Albe’
morétto → more’
bàbbo → o ba’
Bàrbara → o Ba’
Àngelo → o A’
La sincope, cioè
l’eliminazione di uno o più fonemi all’interno della parola, è molto diffusa
proprio → propio
centocinquanta → cencinquanta
eccolo → èllo
sughero → suro
pagliericcio → pajccio
faggeto → faeto
terremoto → tremoto
bevuta → buta
poveretto → poretto.
Può riguardare la vocale non accentata, come
avecceli
peverone
acetello
diavolo
lettera
picqulo
rancidasse
vermine
o, più raramente, la consonante
piove
uva
rastrello
bove.
Esce frequentemente in toponimi come
Monterolo
Sassoferrato
Fratterosa.
Tipica sincope è quella dell’imperativo di alcuni verbi
mecce (mettici): mecce mpò più de sale
temme (tienimi): temme
l posto ch’artorno
givvìa (andate via): allora, givvia o no?
vemme (vienimi): vemm’ a trova quant c’é l tempo
bucce (buttaci): si nc’arivi bucce l
cappello.
Meno frequente è la funzione contraria, cioè l’inserimento
di uno o più fonemi all’interno della parola (epentesi)
moccioloso
arrabbicito
la dòndla
rinsecqulito
i numbri
l’ vermne
la ranfreddora
la strampella
Luviggi.
La prostesi si ha
quando si aggiunge una vocale eufonica all’ inizio di una parola (aradio), in particolare la i quando comincia con s impura
lavora in Isvizzera
mettlo pr iscritto
pjà in isposa.
Quando invece prende una sillaba finale si ha l’epitesi, (scìne, nòne), come alcune parole di origine straniera come
filme, tennise, gippe (jeep).
A volte può avvenire lo scambio di due fonemi all’interno
di una parola, e si ha la metatesi
drento per dentro
batecca per bacchetta
fraido per fradicio.
Il raddoppiamento sintattico, tipico del toscano e di dialetti centro-meridionali,
non è presente nel pergolese
davvero → davero
quaggiù → quagiù
oddio → odìo
addosso → adosso
tressette → tresette
tre(c)cani rimane tre cani
è(g)giusto rimane è giusto
a(r)Roma rimane a Roma
ciò vale, in particolare, nelle preposizioni articolate
la campana de le sette
da la matina a la sera
nne sta su la porta.
Il rafforzamento di alcune consonanti (geminazione) però non è raro
roba → robba
sabato → sabbato
colica → collica
dopo → doppo
baule → baulle
litigare → littigà
stufo → stuffo
fagiolo → faggiolo
libro → libbro
problema → probblema
riguarda in particolare la prima persona plurale
dell’indicativo presente
bevemmo,
fammo, gimmo, guardammo, semmo.
Al contrario, molte consonanti doppie in italiano sono
indebolite, specialmente prima dell’accento:
nei sostantivi
gallina → galina
bottega → botega
carriola → cariola
bottone → botone
cappotto → capotto
piccione → picione
o negli aggettivi
attenti → atenti
arrugginito → ruginito
sessanta → sesanta
o negli avverbi
laggiù → lagiù
stamattina → stamatina
o nei verbi
soffiare → sofià
mi piacciono → me piaciono
cammina → camina
succede → sucede.
Può capitare lo scambio di
doppia consonante con singola, come Tomasso per Tommaso.
Tipici esempi di allitterazione
pergolese sono
la dingla-dangla,
l’altalena
fra l’imbra e l’ambra, fra la luce e lo scuro
lilla e bacilla
chi sministra sminestra
‘na gnagnera
fifflà
ciancicà
le papple.